approfondimenti

Le opere di misericordia

Un cammino da compiersi a tutti livelli

(Enzo Bianchi)

 

Nel vangelo c’è una parola decisiva di Gesù: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7,12). È la “regola d’oro”, che stabilisce l’amore attivo di ciascuno di noi verso l’altro: una regola presente in tutte le culture della terra, perché elaborata dal “noi insieme” nel cammino di umanizzazione. Purtroppo non è abbastanza conosciuta e ripetuta l’universalità di questo comando, sovente sconfessato anche dalle religioni.

Ma se questo imperativo è sentito come tale in ogni tempo e a ogni latitudine, significa che l’essere umano è capax boni, è per natura capace di discernere e operare il bene. È soprattutto in questa capacità che consiste l’immagine di Dio e la somiglianza con lui che ogni umano porta in sé (cf. Gen 1,26-27).

Per questo, proprio su tale criterio avverrà il giudizio di ciascuno: quando il Figlio dell’uomo, alla fine della storia, giudicherà l’umanità intera, collocandola nella benedizione o nella maledizione, guarderà a ciò che ogni persona avrà fatto o non fatto verso il fratello o la sorella in umanità, che attendevano un’azione, un comportamento capace di sollevarli dal loro bisogno, dal loro soffrire (cf. Mt 25,31-46).

Questo imperativo dell’amore dell’altro non è privilegio di una religione, ma è umano, umanissimo, ispirato dal cuore presente in ogni persona, che è capace di compierlo o di rifiutarlo.

La fede cristiana, dunque, non ha creato questa regola d’oro, ma le ha dato un primato assoluto, chiedendo ai discepoli di Gesù Cristo di contribuire al cammino di umanizzazione e di non smentirlo mai: fare un’azione di misericordia verso gli altri è come farla verso il Signore Gesù Cristo (“Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”: Mt 25,40), perché è fare la sua volontà (“Se mi amate, osserverete i miei comandamenti: Gv 14,15).

Ha detto recentemente papa Francesco: “È amando gli altri che si impara ad amare Dio” (3 ottobre 2015), ed è solo ascoltando gli altri che si impara ad ascoltare Dio. Questa non è un’eresia bonaria, né tanto meno si tratta di parole frutto di una fede senza Dio, ma è il cuore stesso del cristianesimo, che afferma un Dio fattosi uomo.

Per chi è cristiano, il primo sacramento di Dio è il sacramento del prossimo e chi vuole andare a Dio non può evitare il sacramento di Dio che è l’umanità tutta raccolta in Gesù Cristo. Il comandamento “Amerai il Signore, tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5) ha sempre significato non tanto un imperativo a nutrire sentimenti di desiderio verso Dio quanto ad amarlo compiendo la sua volontà, ciò che lui desidera: “in questo, consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti” (1Gv 5,3).

L’aver aggiunto a tale comandamento l’altro parallelo – “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18; cf. Mc 12,29-31 e par.) – è solo un’esplicitazione del primo comandamento, affinché non lo si pratichi in un modo che, anche se può essere comune a tutte le religioni, resta pur sempre sviante.

L’amore per Dio, infatti, non è uguale all’amore di un idolo che è caro, amato, invocato proprio perché è muto e risponde ai nostri desideri, cioè un manufatto, opera delle nostre proiezioni! Per questo i profeti con coerenza chiedevano ai credenti di vivere l’amore di Dio non attraverso il culto, i sacrifici, le preghiere, i digiuni, ma nello “sciogliere le catene inique, togliere i pesi del giogo, dare la libertà agli oppressi, … dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, senza tetto, vestire chi è nudo” (Is 58,6-7).

Ovvero, senza vivere una “carità presbite” che vede i bisognosi se sono lontani mentre trascura quelli vicini alla propria casa! I rabbini insegnavano che le azioni di misericordia del credente sono tali solo se conformi al comportamento di Dio, che “ha vestito Adamo ed Eva quando erano nudi, … ha visitato i malati apparendo ad Abramo in convalescenza, … ha consolato gli afflitti quando consolò Giacobbe, … ha nutrito con il pane del cielo i figli di Israele affamati e morenti di sete nel deserto, … ha seppellito Mosè quando egli morì” (Targum a Dt 34,6).

Possiamo dire che tutta la Legge e i Profeti indicano dunque l’azione di carità dei credenti verso gli altri: è così che essi adempiono la volontà di Dio, realizzano nella storia il suo amore, permettono all’amore vivo, eterno e fedele di Dio di raggiungere le diverse situazioni in cui le creature soffrono e appaiono bisognose.

Misericordia, cuore per i miseri, indica bene la fonte dell’azione del credente verso il suo prossimo. Il Nome di Dio, infatti, è “il Signore misericordioso e compassionevole” (Es 34,6; Sal 86,15; 103,8; 111,1; 145,8), e Gesù, Figlio di Dio e di Maria, è stato il volto umano di questa misericordia di Dio, è stato la narrazione (exeghésato: Gv 1,18) di questa “sostanza” del nostro “Dio” che “è carità” (1Gv 4,8.16). E quando questa carità si mette in movimento verso le sue creature, è sempre misericordia, amore che viene dalle viscere di una madre, tenerezza del cuore di un padre.

La misericordia – si badi bene – non può restare un sentimento, ma proprio perché nasce dalle viscere profonde, quasi un istinto, una pulsione incontenibile, diviene un fare. Secondo le espressioni bibliche, la misericordia si fa (si veda, in particolare, Lc 10,37: “qui fecit misericordiam”), come si fanno i sacrifici, ma nella consapevolezza che Dio ha detto: “Voglio la misericordia e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6; cf. Mt 9,13; 12,7).

E proprio perché i cristiani non leggevano più le Scritture e non potevano avere assiduità con il vangelo scritto, nei secoli si è cercato di sintetizzare la volontà del Signore, e quindi la risposta del cristiano, in precetti e consigli. Così si sono compilate liste da ricordare a memoria nella vita quotidiana.

Proprio a partire dalla pagina del giudizio universale ricordata sopra (a cui va aggiunto, per la sepoltura dei morti, un passo del libro di Tobia, Tb 12,12-13), si sono progressivamente individuate sette azioni di misericordia da compiere, dette anche azioni corporali, perché contrassegnate da un fare con il corpo intero verso il corpo di chi è nel bisogno.

Più tardi si sono raccolte, sempre con il numero della totalità indicante la pienezza, sette azioni di misericordia spirituali, che cioè riguardano la vita interiore, spirituale degli altri, bisognosi di aiuto anche a questo livello. Tali distinzioni, nate con l’intenzione di essere delle semplificazioni, di servire quale aiuto e memoria per i credenti, rischiano però di frammentare in una casistica la realizzazione della misericordia, che deve sempre essere creativa.

Occorre dunque la consapevolezza che, per fare azioni di misericordia, sono assolutamente necessari alcuni passi. Innanzitutto il vedere: non basta guardare, occorre vedere, essere svegli e vigilanti, restare consapevoli che nel quotidiano dobbiamo non solo incrociare l’altro, guardarlo e passare oltre, ma vederlo, con uno sguardo che sappia leggerlo nella sua identità altra da noi, di fratello o sorella in umanità. Conosciuto o sconosciuto, l’altro va visto come uno uguale a noi in dignità e umanità.

Solo dal vedere scaturisce il secondo passo: avvicinarsi, farsi prossimo all’altro e così renderlo nostro prossimo. Nell’incontro, nella prossimità, nel volto contro volto, occhio contro occhio, si decide la relazione. L’altro non è più lontano, non è più uno tra tanti altri, ma ha un volto di fronte al mio e con il suo volto mi pone una domanda, accende la mia responsabilità. L’ultimo passo è il sentire, provare compassione non solo con il cuore, ma con viscere che fremono, si commuovono.

Qui si vede se uno ha il cuore di carne o di pietra (cf. Ez 11,19; 36,26), se è egoista e narcisista oppure se sa riconoscere il bisogno dell’altro fino a provare empatia, fino a soffrire con l’altro. Se si compiono questi tre passi, allora è quasi naturale agire, “fare misericordia”, sempre in modo diverso e creativo, sempre guardando al destinatario del nostro aver cura e non a noi stessi. Così accade che la misericordia di Dio, attraverso noi umani, può diventare misericordia concreta verso i bisognosi e gli infelici.

Cari lettori, care lettrici, in quest’anno della misericordia voluto da papa Francesco il primo nostro compito è quello di recuperare l’elementare grammatica dell’amore misericordioso di Dio: misericordia da parte di Dio conosciuta su di noi – anche questa è “conoscenza di Dio” (Os 6,6)! – e misericordia attiva da parte nostra verso i fratelli e le sorelle in umanità. In un epoca in cui si sono fatti progressi, anche se ancora deficitari, nel cammino di umanizzazione, sui temi della libertà e dell’uguaglianza, la fraternità rischia di essere dimenticata.

Ma senza la fraternità anche la ricerca della libertà e dell’uguaglianza diventa debole e rischia di non essere sufficientemente fondata. Occorre un’“insurrezione delle coscienze” che affermi e ricerchi la fraternità a livello universale. Le sette opere di misericordia sono indicative di un cammino da compiersi a tutti livelli: personale, comunitario e politico. Comunque, ci vuole poco a capirlo: se io voglio bene a qualcuno, cioè voglio il suo bene,

gli do da mangiare bene, o meglio, gli faccio bene da mangiare;

gli procuro da bere e brindo insieme a lui con un po’ di vino;

lo aiuto a vestirsi degnamente;

gli do ospitalità a casa mia;

lo curo se è malato;

lo vado a trovare se lui non può venire a trovarmi;

gli do sepoltura quando morirà.

È semplice e quotidiano!

Enzo Bianchi

(articolo tratto da www.monasterodibose.it)


ENZO BIANCHI

LO STRANIERO

Dall’incontro all’ospitalità

 Centro Astalli

 

INTRODUZIONE

L’era della globalizzazione e del pluralismo culturale e religioso si impone a noi con l’evidenza di un fatto. Contribuisce a questo il crescente flusso migratorio verso l’Europa dall’Africa e dall’Asia, dove conflitti ormai senza tempo generano centinaia di migliaia di esuli. Ma come spesso accade i fatti sono inadeguati a mostrare le proprie ragioni. Sta a noi mostrare le ragioni per le quali le diverse culture e le diverse religioni dovrebbero prestarsi quel comune riconoscimento, che è necessario perché dal fatto del pluralismo si passi alla coscienza della diversità come principio della comunicazione e del confronto. Sta a noi comprendere e far divenire questi fenomeni motivo di crescita e di sviluppo e non al contrario causa di scontro e di incomprensione.

Spesso si impadronisce di noi la paura di un mondo così, con sempre maggiori sfumature di colore, dove lo straniero che viene dall’altrove abita le nostre città, si impadronisce di noi. Sì, la paura perché lo straniero era lontano e ora è vicino, perché era sconosciuto e ora me lo trovo accanto.

Questa paura spesso viene cavalcata da cattivi interpreti della realtà, giocolieri interessati dell’informazione, mestieranti di una politica gretta e provinciale.

Da qualche anno lavoro al Centro Astalli, Servizio dei gesuiti per i rifugiati. Di pomeriggio quando mi aggiro tra le sale della mensa, ho lì la chiara percezione che il dialogo può avvenire in modo privilegiato tra persone, instaurando una relazione. Pensare un dialogo fra culture veicola l’idea di un dialogo tra realtà ordinate, chiuse e fisse nel tempo in cui i soggetti vengono astratti, fissati in uno spazio senza tempo, nascondendo la complessità delle molteplici differenze/connessioni con cui essi conducono e costruiscono la propria vita. L’ascolto, l’incontro e la relazione invece veicolano un dialogo tra coscienze che ha come presupposto e fondamento la dignità della persona umana. «La dignità è premessa e condizione di uguaglianza e al tempo stesso di diversità; è espressione e frutto di solidarietà; è fondamento e limite della libertà». E spesso i rifugiati hanno una dignità ferita, calpestata, perché fuggono da Paesi dove è impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche. Per questo è ancora più necessario e urgente che essi siano accolti e accompagnati in un cammino tra pari.

Dobbiamo imparare a convivere come diversi – se non ora quando? – non ghettizzandoci, neppure soltanto tollerandoci, ma fermentandoci e vivificandoci a vicenda perché ognuno è ricchezza per l’altro.

Nelle pagine che seguono, il priore della Comunità di Bose Enzo Bianchi ci prende per mano e ci aiuta a compiere questo viaggio per comprendere e interpretare ciò che stiamo vivendo come singoli e come società civile perché si svegli in ciascuno di noi quel senso di responsabilità a cui papa Francesco ci ha invitato nel suo primo viaggio a Lampedusa, la porta d’Europa, durante la celebrazione di suffragio per le vittime del mare: «La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro! Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto. ”Adamo dove sei?”, “Dov’è il tuo fratello?”, sono le due domande che Dio pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo, anche a noi.

Vorrei allora raccogliere l’invito con cui Enzo Bianchi apre il suo contributo, chiedendo perdono ai richiedenti protezione internazionale per la nostra continua indifferenza e arroganza, per il nostro cuore indurito. A loro va invece il nostro grazie perché si sono fatti prossimi a noi, feriti e prigionieri del nostro egoismo, perché non ci hanno lasciato nella nostra autoreferenzialità dandoci ogni giorno la possibilità di essere a nostra volta prossimi a loro.

P. Camillo Ripamonti sj Presidente Centro Astalli

LO STRANIERO

Dall’incontro all’ospitalità

Enzo Bianchi Priore di Bose

Introduzione

Cari amici,

vorrei innanzitutto dirvi grazie per l’invito ricevuto: grazie al Centro Astalli, ma anche a tutti coloro che operano nel Servizio dei gesuiti per i rifugiati in Italia, voluto da p. Pedro Arrupe. Sono qui tra di voi per ascoltare, vedere, rendermi consapevole di una situazione drammatica che voi vivete immergendovi in essa, in piena solidarietà, a caro prezzo. Dopo l’ascolto del Rapporto occorrerebbe non tanto ascoltare la mia breve riflessione, quanto piuttosto riflettere su ciò che abbiamo ascoltato…

Vorrei dirvi il sentimento di vergogna che provo e anche il sentimento di indignazione che rinnovo ogni giorno da più di un decennio, per questo nostro affondare sempre più in una barbarie che nega, stravolge, calpesta quella virtù umanissima che proprio qui nel Mediterraneo si era affermata nell’antichità e nella storia cristiana come la prima urgenza per il cammino di umanizzazione. Non a caso philoxenia (amore per lo straniero) era diventato il nome dato all’azione di ospitalità verso i tre stranieri compiuta da Abramo (cf. Gen 18,1-16; Eb 13,2), icona che ispirava l’azione doverosa verso chi, sconosciuto, giungeva e appariva, venendo da lontano: straniero, migrante, rifugiato, pellegrino, nomade, fuggitivo …

Vorrei inoltre dire a voi che aiutate uomini e donne, in quanto fratelli e sorelle in umanità, di chiedere loro perdono a nome nostro: noi non sappiamo impedire le tragedie che spingono i rifugiati fin qui, restiamo indifferenti verso questa gente che nutre il sogno umano di vivere senza violenza e senza fame. Chiedete perdono anche per quanti tra di noi arrivano a essere blasfemi verso queste tragedie che si ripetono ogni giorno, arrivano al dileggio e al sarcasmo, come abbiamo ascoltato nei talk show in questi giorni: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che dicono!” (cf. Lc 23,34).

In verità siamo soprattutto noi i responsabili di queste tragedie, di questi esodi che si concludono spesso per molti uomini e donne nell’essere sommersi nel Mediterraneo e poi nell’essere citati come un numero riportato dai media, un numero di morti che non siamo capaci di leggere nel loro proprio volto, come la vita di un uomo, di una donna, di un bambino che hanno la nostra stessa dignità e importanza davanti a Dio. Quando nel 2006 scrissi il libro Ero straniero e mi avete ospitato, dedicandolo a quanti trovavano la morte nel Mediterraneo, non immaginavo che quel dramma si sarebbe ripetuto e sarebbe continuato fino a oggi! E ora confesso di prevedere che continuerà, sarà un grido di vendetta al cospetto di Dio e un’imputazione incancellabile per le nostre coscienze…

Questa nostra consapevolezza, cari amici, lo confessiamo, è aumentata dalla nostra fede, nata e scaturita da situazioni di migrazione come quella di Abramo a Canaan, di rifugiati politici come quella di Mosè a Madian, di migranti per ragioni economiche come quella di Israele in Egitto, di fuggiaschi presso altri popoli come David e alcuni dei profeti. Una fede che con Gesù di Nazaret diventa strettamente legata all’accoglienza degli esclusi dal popolo di Dio, dei gojim, delle genti straniere in un unico popolo, i cui membri portano per sempre il nome di “stranieri e migranti” (paroikoi kai parepidemoi: 1Pt 2,11), in cammino verso una patria che qui non si trova (cf. Fil 3,20; Eb 11,14). Noi siamo salvati attraverso la fede, ma la Prima lettera di Clemente di Roma ai Corinti afferma: “Per la fede e l’ospitalità praticata (philoxenia) Abramo fu giustificato” (cf. 10,7). Non per la fede soltanto, ma anche per la pratica dell’ospitalità!

1. Gli stranieri e noi

Oggi in Italia, come ormai in tutta l’Europa occidentale, ci troviamo di fronte a un consistente fenomeno migratorio: milioni di uomini e donne appartenenti a mondi, culture, lingue, religioni diverse e fino a ieri di fatto estranee l’una all’altra, si trovano a vivere fianco a fianco tra loro e in mezzo a noi. Fenomeno certo non nuovo quello della migrazione – basterebbe pensare all’emigrazione italiana da quando esiste lo stato unitario fino a pochi decenni or sono – ma nuova è la convergenza simultanea di diversi flussi migratori verso l’Europa. La complessità delle situazioni generate dall’immigrazione provoca una serie di interrogativi:

“Perché vengono da noi? Non possono restarsene nei loro paesi? Perché così numerosi? Che ne sarà della nostra cultura, del nostro modo di vivere e di convivere?”.

Di fronte a tali interrogativi si impongono certamente alcune constatazioni: da sempre non è il pane che si muove verso i poveri, ma sono i poveri ad accorrere verso il pane; da sempre quando gli uomini hanno speranza di trovare una vita migliore altrove sono pronti a tentare l’avventura della migrazione, malgrado molte e gravi difficoltà. Sì, molte sono le ragioni che spingono migliaia di individui a lasciare il proprio paese: la miseria che cresce di anno in anno, soprattutto in Africa, l’insicurezza e la violenza politica che inducono minoranze osteggiate a cercare asilo altrove – si pensi ai cristiani del Medioriente -, guerre e lotte etniche che creano profughi e rifugiati… A questo si aggiunga anche il sogno di molti che vogliono uscire da condizioni economiche difficili e partecipare alla vita del “mondo dei ricchi”, identificato con l’occidente ricco e consumista.

Ma oltre che interrogativi dalle risposte complesse, la presenza degli stranieri desta in noi anche timori e paure, perché l’altro è veramente e radicalmente altro da me, perché era lontano e ora è vicino, perché era sconosciuto e ora me lo trovo accanto… Noi italiani poi, abituati a essere terra di emigrazione piuttosto che terra di accoglienza, siamo meno preparati rispetto ad altre nazioni di antica immigrazione anche a causa del fenomeno coloniale. È fisiologico che la presenza dello straniero ponga noi in questione: proprio perché ci manca un terreno comune su cui fondare un’intesa e la conoscenza del retroterra da cui proviene, ciò che nasce immediatamente e spontaneamente di fronte allo straniero è la paura. E la paura non va derisa né minimizzata, ma presa sul serio e fronteggiata per capirla e vincerla.

Ora, un dato fondamentale di cui tenere conto è che nell’incontro con lo straniero non va messa in conto solo la “mia” paura, la paura di chi accoglie, ma anche e forse soprattutto la “sua” paura, la paura di chi arriva in un mondo estraneo, dove non è di casa, un mondo di cui conosce poco o nulla, un mondo che non gli offre alcuna protezione. Sì, la prima sensazione nel rapporto tra residente che accoglie e immigrato che arriva è la paura: due paure a confronto! E non basta invocare elementi ideologici, principi religiosi o etici per esorcizzare la paura: essa va affrontata come presa di consapevolezza della distanza, della diversità, della non conoscenza e, quindi, della non affidabilità. La paura dell’altro è una sensazione paralizzante che va superata non rimuovendola bensì assumendola.

Di fronte al sentimento della paura per l’incontro con lo straniero due sono infatti i rischi: negarne l’esistenza e quindi assolutizzare la differenza dell’altro, sacralizzare l’altro e rinunciare così alla propria cultura; oppure, al contrario, assolutizzare la propria identità intesa come esclusiva ed escludente, assumendo un atteggiamento difensivo dei propri valori fino a farne un presidio da difendere anche con la forza contro ogni minaccia reale o presunta all’identità culturale o religiosa. In entrambi i casi si dimentica che l’identità a livello sia personale che comunitario e sociale si è formata storicamente e si rinnova quotidianamente nell’incontro, nel confronto, nella relazione con gli altri, i diversi, gli stranieri. L’identità infatti non è statica ma dinamica, in costante divenire, non è monolitica ma plurale: è un tessuto costituito di molti fili e molti colori.

Quando il fantasma dell’identità porta a ridurre le relazioni sociali alla materialità del dato etnico, dell’omogeneità del sangue, della religione praticata, allora si apre la via a forme di politica totalitaria e intollerante. I risorgenti nazionalismi e le tendenze localistiche si accompagnano sempre a spinte xenofobe e razziste che tendono all’esclusione dell’altro e si risolvono in un autismo sociale, in cui si vive un auto-isolamento che si presume dorato ma che in realtà si risolve in un sistema chiuso, senza più incontri con l’altro, in uno spazio asfittico in cui può solo avanzare la barbarie.

2. L’incontro con l’altro: riconoscimento e accoglienza

In Italia solo da qualche decennio conosciamo una presenza numericamente significativa di immigrati stranieri, anche se in percentuale ancora lontane da quelle di altri paesi europei come, per esempio, la Francia e la Germania. Ed è alla luce dell’esperienza maturata qui da noi e negli altri paesi dell’Europa occidentale che è possibile cercare di comprendere come è avvenuto e come avviene l’incontro tra gli autoctoni e gli stranieri: si tratta di approcci e di tappe diverse che sovente, più che succedersi in ordine cronologico, si intrecciano e coesistono.

Una prima tipologia di rapporto è quella della assimilazione, in cui l’incontro con lo straniero tende ad assimilarlo alla comunità che lo accoglie: il nuovo arrivato è sollecitato a comportarsi in tutto come i cittadini della società ospitante. Ma questo è in realtà un rapporto di rifiuto e di esclusione dell’altro perché postula un incontro che nega la differenza. Lo straniero è talmente differente da me che non posso condividere con lui il mio spazio vitale, salvo che lui diventi simile a me, assuma il mio modo di vivere, la mia cultura, la mia storia e mantenga per sé solo minime differenze marginali. Appare a tutti chiaro che un’accoglienza che miri all’assimilazione si nutre di una logica escludente: non è accoglienza autentica.

Un’altra modalità di incontro con lo straniero è quella dell’inserzione, che risponde alla volontà di vivere gli uni accanto agli altri conservando le rispettive differenze. Così l’inserimento dello straniero nel tessuto sociale esistente avviene senza confiscarne l’identità e l’autonomia: ognuno mantiene la propria identità e la inserisce in un tessuto comune dove però le differenze sono giustapposte. Si vive sì gli uni accanto agli altri, ma l’altro resta uno sconosciuto, l’indifferenza regna e consente una coesistenza relativamente pacifica nella società. Il rapporto con l’altro è vissuto nell’indifferenza di fondo, in una logica di accettazione di una minoranza da parte di una maggioranza. Questo tipo di rapporto, a mio avviso, è il più attestato oggi in Italia.

Ma si sta facendo progressivamente strada anche un altro tipo di incontro, quello dell’integrazione. Il rapporto vissuto è quello del riconoscimento reciproco dell’alterità, delle differenze e delle somiglianze, nel dare e nel ricevere, in una logica di eguaglianza senza che l’altro sia ridotto a me. L’integrazione dello straniero consiste nel suscitare la partecipazione attiva alla società nel suo complesso, chiamata alla convivenza su uno stesso territorio, accettando le specificità culturali ma mettendo l’accento su rassomiglianze e convergenze in un’eguaglianza di doveri. L’integrazione è a doppio senso, cerca un avvenire comune per immigrati e residenti. Si tratta indubbiamente di un cammino lungo e difficile, sovente ancora contraddetto ma assolutamente necessario in vista di una società pluriculturale e interculturale sempre in divenire, un cammino doveroso per una fattiva resistenza all’imbarbarimento e per un’autentica qualità umana della convivenza.

Per questo cammino mi pare urgente analizzare non tanto la situazione di partenza dello straniero e il livello delle sue potenzialità di integrazione, quanto piuttosto interrogarsi sulle condizioni che abbiamo creato o che possiamo predisporre per ricevere lo straniero. In quali condizioni umane e sociali ci troviamo noi e la nostra società? Le nostre relazioni con lo straniero non sono forse ancora segnate da esclusione e discriminazione? E le possibilità concrete di accoglienza che apprestiamo non sono ancora segnate da povertà e miseria? Sovente quando attraverso quartieri abitati dagli immigrati, osservando la loro reale situazione di vita mi sento costretto a vedere in essi la caricatura odiosa della nostra propria umanità. Sì, ci dobbiamo interrogare sulla qualità della nostra accoglienza: è eticamente corretto accogliere qualcuno senza potergli fornire casa, pane e vestito, e soprattutto la possibilità di un’esistenza condotta con soggettività e dignità? L’accoglienza è altra cosa dal soccorso di emergenza?

5. Una cultura dell’ospitalità: le condizioni dell’accoglienza

L’essere umano è un essere relazionale: non c’è un uomo senza gli altri uomini, e ogni uomo fa parte dell’umanità, fa parte di una realtà in cui ci sono gli altri. E l’essere umano ha tre modi di relazione complementari, che gli permettono di costruire la propria identità e di vivere:

- la relazione di ognuno con se stesso, con il proprio intimo, cioè la vita interiore;

- la relazione di ognuno con gli altri, con l’alterità, cioè la relazione sociale;

- infine, per i credenti, la relazione con Dio, alterità delle alterità.

In queste tre relazioni sono innestate tre dimensioni dell’essere umano: lo spirito (pensiero, parola, memoria, immaginazione), il cuore (sentimenti, sensi, emozioni) e il corpo, in cui tutto è unificato. Quando un uomo entra in relazione con un altro, con gli altri, tutte queste dimensioni sono impegnate e di ciò occorre essere consapevoli. È all’interno di questa complessità che occorre porsi la domanda: come percorrere i cammini dell’incontro, della relazione con gli stranieri?

a) Il riconoscimento dell’alterità

Innanzitutto occorre riconoscere l’altro nella sua singolarità specifica, riconoscere la sua dignità di uomo, il valore unico e irripetibile della sua vita, la sua libertà, la sua differenza: è uomo, donna, bambino, vecchio, credente, non credente, ecc. Teoricamente questo riconoscimento è facile, ma in realtà proprio perché la differenza desta paura, occorre mettere in conto l’esistenza di sentimenti ostili da vincere: c’è infatti in noi un’attitudine che ripudia tutto ciò che è lontano da noi per cultura, morale, religione, estetica, costumi. Quando si guarda l’altro solo attraverso il prisma della propria cultura, allora si è facilmente soggetti all’incomprensione e all’intolleranza. Claude Lévi-Strauss ha affermato significativamente che l’etnocentrismo è positivo se significa non mettere da parte la propria storia e la propria cultura, ma è negativo se tale cultura è assolutizzata fino ad assurgere a identità assoluta e immutabile.

Occorre dunque esercitarsi a desiderare di ricevere dall’altro, considerando che i propri modi di essere e di pensare non sono i soli esistenti ma si può accettare di imparare, relativizzando i propri comportamenti. Nessuna dimenticanza della propria identità culturale, nessuna auto-colpevolizzazione, ma anche nessuna esclusione di ciò che è altro!

b) L’ascolto

Se ci sono questi atteggiamenti preliminari, allora diventa possibile mettersi in ascolto: ascolto arduo perché interculturale, ma ascolto essenziale di una presenza, di una chiamata che esige da ciascuno di noi una risposta, dunque sollecita la nostra responsabilità. L’ascolto – non lo si ripeterà mai abbastanza – non è un momento passivo della comunicazione, non è solo apertura all’altro, ma è atto creativo che instaura una con-fidenza quale con-fiducia tra ospitante e straniero. L’ascolto è un sì, un amen radicale all’esistenza dell’altro come tale; nell’ascolto le rispettive differenze si contaminano, perdono la loro assolutezza, e quelli che sono dei limiti all’incontro possono diventare risorse per l’incontro stesso.

Ascoltare uno straniero non equivale dunque a informarsi su di lui, ma significa aprirsi al racconto che egli fa di sé per giungere a comprendere nuovamente se stessi: così lo straniero non abita tra di noi ma abita con noi. Non lo si dimentichi: lo straniero cessa di essere estraneo quando noi lo ascoltiamo nella sua irriducibile diversità ma anche nell’umanità comune a entrambi.

c) La simpatia e l’empatia

Nell’ascoltare l’altro occorre rinunciare ai pregiudizi che ci abitano. Inutile negarlo, noi siamo abitati da pregiudizi connessi alle tipizzazioni presenti nei giudizi popolari comuni, ereditati dal passato e conseguenze della memoria collettiva: dire tedesco o turco, per esempio, risveglia in noi immagini che sono pregiudizi rispetto al concreto essere umano turco o tedesco che ci sta davanti… Si tratta quindi di modificare le immagini di noi stessi e dello straniero e di riflettere sui condizionamenti culturali, psicologici, religiosi cui siamo soggetti.

E quando si sospende il giudizio, ecco che si appresta l’essenziale per guardare all’altro con sym-pàtheia. Lo straniero, il povero, lo sconosciuto sono quasi sempre ospiti non belli, non piacevoli; per questo si richiede un atteggiamento che si nutra di un’osservazione partecipe la quale accetti anche di non capire l’altro e tuttavia tenti di praticare nei suoi confronti un atteggiamento di sym-ptàheia, cioè di sentire-con lui. La verità dello straniero ha la stessa legittimità della mia verità, ma questo non equivale a dire che, dunque, non c’è verità o che tutte le verità si equivalgono. No, ciascuno è legittimato a manifestare la propria verità, ognuno deve impegnarsi con umiltà a confrontarsi e a ricevere la verità che sempre precede ed eccede tutti, pur nella convinzione che la propria verità è quella su cui può essere fondata e trovare senso una vita.

Certamente la simpatia decide anche dell’empatia, che non è lo slancio del cuore che ci spinge verso l’altro, bensì la capacità di metterei al posto dell’altro, di comprenderlo dal suo interno; empatia che è manifestazione dell’humanitas dell’ospite e dell’ospitante, umanità condivisa.

d) L’intercomprensione

Ed eccoci al dialogo, esperienza di intercomprensione. È il dialogo che consente di passare non solo attraverso l’espressione di identità e differenze ma anche attraverso una condivisione dei valori dell’altro, non per farli propri bensì per comprenderli. Dialogare non è annullare le differenze e accettare le convergenze, ma è far vivere le differenze allo stesso titolo delle convergenze: il dialogo non ha come fine il consenso ma un reciproco progresso, un avanzare insieme. Così nel dialogo avviene la contaminazione dei confini, avvengono le traversate nei territori sconosciuti, si aprono strade inesplorate.

Dia-lògos: parola che si lascia attraversare da una parola altra; intrecciarsi di linguaggi, di sensi, di culture, di etiche; cammino di conversione e di comunione; via efficace contro il pregiudizio e, di conseguenza, contro la violenza che nasce da un’aggressività non parlata, senza dialogo possibile…

e) La responsabilità

Scriveva Emmanuel Lévinas: “Io sono nella sola misura in cui sono responsabile dell’altro”. Ecco ciò che siamo chiamati a vivere nell’incontro con lo straniero. Questa l’etica che deve regnare quando vogliamo accogliere chi si è avvicinato a noi e quando scegliamo di avvicinarci allo straniero. Incontrare lo straniero non significa farsi un’immagine della sua situazione, ma porsi come responsabile di lui senza attendersi reciprocità. Ciò che lo straniero può fare nei miei confronti riguarda lui – dice sempre Lévinas – ma la responsabilità verso di lui impegna me, fino a definire una relazione asimmetrica in cui la reciprocità non è richiesta, una relazione disinteressata e gratuita.

Così la vicenda dell’incontro con lo straniero si fa epifania di humanitas e, per chi crede, incontro con Dio.

Conclusione

Nel suo affresco riguardante il giudizio finale, che deciderà la salvezza o la perdizione di ogni essere umano, credente o non credente, Gesù assicura che il Figlio dell’uomo, colui che esercita il giudizio in nome di Dio, dirà:

Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo, … perché ero straniero e mi avete accolto. Via, lontano da me, maledetti, … perché ero straniero e non mi avete accolto (Mt 25,34-35.41.43).

Cristo si identifica con lo straniero, così come con l’affamato, l’assetato, il povero, il malato, il carcerato: egli è qui e ora nell’uomo, l’unica e sola vera immagine di Dio (cf. Gen 1,26-27), non è altrove… Sì, l’atteggiamento verso lo straniero che vive tra di noi e con noi narra niente meno che il nostro atteggiamento verso Cristo, verso Dio.

Roma, 23 aprile 2015

Teatro Argentina,

in occasione della presentazione

del Rapporto annuale 2015 del Centro Astalli

Il Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei gesuiti per i rifugiati – JRS, ha iniziato le sue attività nel 1981 nella sede di via degli Astalli a Roma, accogliendo l’appello di Pedro Arrupe sj, allora Padre Generale della Compagnia di Gesù: nell’autunno del 1980, profondamente colpito dalla tragedia di migliaia di boot people vietnamiti in fuga dal loro Paese devastato dalla guerra, esortò i gesuiti di tutto il mondo a “portare almeno un po’ di sollievo a questa situazione così tragica”.

L’accompagnamento dei rifugiati e la condivisione delle loro esperienze è al centro di tutti i servizi del Centro Astalli, da quelli di prima accoglienza per chi è arrivato da poco in Italia, fino alle attività di sensibilizzazione e all’impegno di advocacy.

Rispetto ai primi anni di attività, il Centro Astalli ha ampliato e diversificato i servizi offerti, grazie all’impegno costante di oltre 450 volontari. In totale, considerando nell’insieme le sue differenti sedi territoriali (Roma, Vicenza, Trento, Catania e Palermo), il Centro Astalli in un anno risponde alle necessità di circa 34.000 migranti forzati, di cui quasi 21.000 nella sola sede di Roma.

"Sono stato afferrato da Cristo" Fil 3,12